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Cacao africano, Messico, uova russe
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Economica
23 febbraio 2024
La newsletter di economia a cura di Alessandro Lubello
Prezzi salati per il cacao
I prezzi del cacao sui mercati mondiali hanno raggiunto livelli record in seguito ai danni subiti dalle piantagioni dei grandi paesi produttori dell’Africa occidentale. I raccolti alla fine del 2023 sono stati pessimi e non si prevedono miglioramenti nei prossimi mesi. Alla metà di febbraio sul mercato di New York il cacao costava 5.888 dollari alla tonnellata, il 40 per cento in più rispetto all’inizio del 2023. A Londra il prezzo era addirittura raddoppiato, raggiungendo le 4.757 sterline alla tonnellata. I paesi dove i danni alle piantagioni sono stati maggiori sono la Costa d’Avorio e il Ghana, che insieme forniscono il 70 per cento dei semi di cacao in circolazione nel mondo: a rovinare i raccolti sono state le condizioni meteorologiche avverse riconducibili a El Niño, un fenomeno climatico che riscalda la superficie del mare nella fascia tropicale degli oceani Pacifico e Atlantico, provocando nell’Africa occidentale piogge irregolari alternate a un tempo caldo e secco. I coltivatori locali hanno dovuto affrontare una serie di malattie delle piante causate dall’eccesso di umidità. Alcuni importanti produttori di cioccolato, come il gruppo statunitense Hershey, hanno avvertito che il rialzo della materia prima ridurrà i profitti, visto che la situazione non dovrebbe cambiare nel resto dell’anno. Già nell’ultimo trimestre del 2023 l’azienda aveva registrato un calo degli utili del 6 per cento, con i consumatori che hanno ridotto la domanda in seguito all’impennata dell’inflazione.
 
Il rialzo dei prezzi di una materia prima così richiesta e la prospettiva che la tendenza continui nel 2024 ha spinto molti operatori finanziari a fare operazioni speculative, aggravando il problema. Dalla fine del 2022, scrive il Financial Times, alcuni fondi specializzati hanno investito 8,7 miliardi di dollari sui mercati di New York e Londra per assicurarsi contratti futures con scadenza a marzo. Si tratta di accordi in base ai quali una parte accetta di comprare un bene a un prezzo determinato ma a una scadenza futura, scommettendo che un eventuale rialzo le permetterà d’incassare un guadagno. Secondo Martijn Bron, fino al 2022 responsabile delle operazioni sul cacao e sul cioccolato della Gargill, colosso statunitense del commercio di materie prime agricole, “in questo momento i fondi speculativi hanno un’esposizione senza precedenti verso il cacao. Non sono la causa dei rincari, ma in un mercato caratterizzato da un basso livello di liquidità possono amplificare alcune tendenze fino a livelli estremi”. Gli investitori si sono concentrati sul cacao usando computer superveloci e algoritmi che fanno partire in pochi secondi grandi quantità di ordini. Secondo gli esperti della banca francese Société Générale, negli ultimi mesi il cacao è stato il prodotto che ha contribuito di più ai loro profitti.
 
Hermankono, Costa d’Avorio, 14 novembre 2023 (Sia Kambou/Afp)
I prezzi più alti dei futures, continua il Financial Times, non renderanno più ricchi i coltivatori ganeani e ivoriani, che attualmente ricevono tra i 1.600 e il 1.900 dollari alla tonnellata. Questi prezzi riflettono le vendite concluse tra dodici e diciotto mesi fa, ha spiegato al quotidiano britannico Fuad Mohammed Abubakar, direttore della Ghana Cocoa Marketing Company, azienda in parte controllata dal governo del Ghana che stabilisce i prezzi all’uscita della piantagione. I rialzi di febbraio, ha aggiunto il dirigente, poteranno qualcosa in più nelle tasche dei coltivatori verso ottobre, all’inizio della nuova stagione”. Proprio il fatto che da anni i piccoli coltivatori di cacao dell’Africa occidentale si accontentano di prezzi bassi e continuano a coltivare questi alberi perché è l’unico modo per sfuggire alla povertà estrema ha permesso ai consumatori del resto del mondo di “godersi i piaceri del cioccolato” senza spendere troppo, osserva Bloomberg. “A differenza di altre materie prime agricole, il cacao non ha sviluppato piantagioni industriali, semplicemente perché con i prezzi di questi anni non sarebbe stato conveniente. Il grosso dei profitti è sempre andato a chi lavora i semi per farli diventare cioccolato, non a chi li coltiva e li raccoglie”. Finora questi agricoltori sono state “mucche da mungere” per i governi che li tassano, per i commercianti di semi e per l’industria alimentare. Ma ora dopo decenni il sistema non regge più di fronte a una domanda in crescita costante: secondo gli esperti del settore, nel 2024 ci sarà uno scostamento tra domanda e offerta che oscillerà fra le trecento e le cinquecentomila tonnellate, il più alto degli ultimi 65 anni. Le fabbriche di cioccolato dovranno dare fondo a tutte le loro scorte in magazzino e non riusciranno a ricostruirle facilmente, anche perché nei paesi dell’Africa occidentale le piante di cacao sono relativamente vecchie e nei prossimi anni dovranno essere sostituite. Alla fine, conclude Bloomberg, questa crisi è necessaria, perché servono prezzi più alti per piantare nuovi alberi di cacao, per usare più fertilizzanti e pesticidi e anche per far rallentare una domanda che si è rivelata insostenibile.
 
Tempi duri per la Nigeria
L’impennata dei prezzi alimentari ha peggiorato sensibilmente il tenore di vita di molti nigeriani, spingendo le persone a scendere in piazza per esprimere il loro malcontento e manifestare contro il governo del presidente Bola Ahmed Tinubu. In particolare, racconta Le Monde, il recente taglio ai sussidi per il carburante ha fatto triplicare il prezzo della benzina e in generale ha aumentato il costo della vita, con la naira, la valuta nazionale, che si è svalutata drasticamente rispetto al dollaro statunitense. A dicembre il tasso d’inflazione ufficiale ha raggiunto il 28,9 per cento, il livello più alto degli ultimi tre anni, mentre “almeno il 63 per cento dei 220 milioni di abitanti della Nigeria vive in condizioni di estrema povertà”. Molte persone hanno dovuto rinunciare ad alimenti considerati ormai “beni di lusso”, come la carne, le uova, il latte e le patate. Per calmare le proteste, Tinubu ha ordinato il rilascio di 102mila tonnellate di grano dalla riserva strategica, con l’obiettivo di abbassare i prezzi. A Kano, nel nord del paese, le autorità hanno fatto irruzione nei magazzini dove si sospetta che i commercianti ammassino generi alimentari. All’inizio di febbraio il governo dello stato di Yobe, nel nordest, al confine con il Niger, ha vietato gli acquisti all’ingrosso di cereali nei mercati locali.

Un’altra conseguenza delle difficoltà finanziarie del paese più popoloso dell’Africa, nonché seconda economia del continente, è l’esodo di aziende straniere, scrive Bloomberg. Negli ultimi mesi almeno quattro multinazionali hanno annunciato l’uscita dalla Nigeria: la casa farmaceutica britannica GlaxoSmithKline, il colosso agrochimico tedesco Bayer, l’azienda farmaceutica francese Sanofi e il gruppo statunitense Procter & Gamble. Inoltre, la Unilever ha chiuso alcuni impianti di produzione, mentre la Nestlé ha registrato forti perdite in Nigeria. Al cuore del problema c’è la  carenza di valuta pregiata, in particolare la difficoltà di procurarsi i dollari necessari a una multinazionale per pagare i debiti, comprare le materie prime e portare gli utili fuori dal paese. A tutto questo si aggiungono la mancanza di una rete elettrica affidabile e la congestione dei porti. Molti si aspettavano che il ritorno alla democrazia di un paese con enormi riserve di greggio, terre fertili e una popolazione in crescita avrebbe favorito lo sviluppo di un mercato redditizio per i beni di consumo, ma non tutto è andato come previsto: l’instabilità politica, la corruzione e l’eccessiva dipendenza dell’economia dalle entrate del petrolio hanno complicato la situazione. Il paese africano ricorre massicciamente alle importazioni e l’uscita delle aziende straniere è destinata ad aggravare la svalutazione della naira, che negli ultimi otto anni ha già perso l’86 per cento rispetto al dollaro.
 
Il Mondo è il podcast quotidiano di Internazionale, dal lunedì al venerdì, tutte le mattine dalle 6.30. Oggi: due anni di guerra in Ucraina, con Adriano Sofri. La mobilitazione delle attrici francesi contro gli abusi nel cinema. Ascolta la puntata.
L’importanza del Messico
Elon Musk, l’amministratore delegato della Tesla, ha invitato i fornitori cinesi a lavorare in Messico, dove potrebbero creare impianti simili a quelli con cui a Shanghai assicurano componenti alla casa automobilistica statunitense. Lo scrive Bloomberg citando fonti vicine all’azienda, secondo le quali Musk vuole aprire un impianto per la produzione di veicoli di fascia bassa nello stato messicano di Nuovo León, grazie anche ai 153 milioni di dollari di sussidi messi a disposizione dal governo locale. Per ora la Tesla compra componenti cinesi fabbricati in Messico solo per il suo impianto di Austin, in Texas. Ma le esportazioni dal Messico agli Stati Uniti continuano ad aumentare: nel 2023 hanno raggiunto gli 1,1 miliardi di dollari, il 15 per cento in più rispetto al 2022, secondo i dati preliminari diffusi dalla Ina, l’associazione dei produttori messicani di componenti per le auto. L’Ina ha aggiunto che l’anno scorso erano attive nel paese 33 aziende cinesi, diciotto delle quali esportano negli Stati Uniti. Tra gli ultimi arrivi ci sono aziende come il Ningbo Tuopu Group, la Shanghai Bayon Precision Automobile Component, la Suzhou Dongshan Precision Manufacturing, la Zhejiang Yinlun Machinery e il Chinaust Group.

Anche la Byd, l’azienda cinese leader mondiale della produzione di auto con motore elettrico, sta cercando di aprire impianti in Messico, scrive il Wall Street Journal. L’obiettivo è arrivare sul ricco mercato statunitense aggirando i pesanti dazi imposti dalla Casa Bianca sulle auto prodotte in Cina. “Gli amministratori delegati delle aziende concorrenti hanno subito lanciato l’allarme, invitando il governo di Washington a prendere provvedimenti”. L’amministrazione guidata da Joe Biden sta riflettendo sull’opportunità di inasprire i dazi sulle auto cinesi “a prescindere da dove sono assemblate”, ma intanto i produttori del paese asiatico sbarcati in Messico hanno la possibilità di raggiungere gli Stati Uniti pagando il dazio del 2,5 per cento stabilito in base allo United States-Mexico-Canada agreement, firmato nel 2020.

Nel frattempo, scrive il New York Times, per la prima volta in vent’anni il Messico ha superato la Cina come principale fonte delle importazioni statunitensi. “Un dato significativo, che dimostra ulteriormente come i rapporti commerciali tra Washington e Pechino stiano cambiando”. Nel 2023 le merci importate dalla Cina sono diminuite del 20 per cento, raggiungendo il valore di 427,2 miliardi di dollari. “I consumatori e le aziende statunitensi”, osserva il quotidiano, “si rivolgono anche al Messico, alla Corea del Sud, all’Europa, all’India, al Canada e al Vietnam per procurarsi componenti per le auto, scarpe, giocattoli e altri beni”. In realtà anche le aziende cinesi passano sempre di più per il Messico: secondo i dati della Container Trades Statistics, scrive il Financial Times, nei primi nove mesi del 2023 la Cina ha inviato nel paese latinoamericano 881mila container da venti piedi, contro i 689mila registrati nello stesso periodo del 2022. Le navi arrivate direttamente dalla Cina agli Stati Uniti assicurano il 15 per cento delle importazioni statunitensi, mentre nel 2017 la quota superava il 20 per cento. Pechino, continua il quotidiano, sta usando anche le Filippine, Singapore e il Vietnam per raggiungere i mercati nordamericani.
 
Numeri
Nei primi sei mesi del 2022 il colosso energetico russo Gazprom dichiarava utili lordi record per 4.500 miliardi di rubli (49,7 miliardi di dollari), ma nello stesso periodo di un anno dopo gli utili lordi erano crollati del 40 per cento, a 2.700 miliardi di rubli, mentre i profitti erano scesi da mille a 255 miliardi di rubli. Nel frattempo il regime di Mosca aveva deciso di tagliare le forniture di gas naturale all’Europa come rappresaglia per le sanzioni decise dopo l’aggressione russa all’Ucraina. Inizialmente, spiega il Financial Times, i prezzi più alti avevano permesso di compensare la riduzione delle esportazioni, ma in seguito l’effetto si è rivelato di breve durata, perché l’Europa è riuscita a rompere in modo relativamente rapido la sua dipendenza dal gas russo e i prezzi globali del gas naturale sono crollati. Un gruppo di ricercatori dell’accademia russa delle scienze, un’istituzione controllata dallo stato, ha perfino previsto che con i risultati del 2023 la Gazprom smetterà di realizzare utili e che nel 2025 dovrebbe registrare una perdita netta di mille miliardi di rubli. Il Cremlino ha cercato di trovare alternative ai clienti europei stringendo accordi in Asia centrale, con la Cina e con la Turchia, ma per il momento potrebbe sostituire dal 5 al 10 per cento delle quote di mercato perse in occidente. Raggiungere risultati più sostanziosi, inoltre, richiede molti anni e investimenti enormi in altri gasdotti.

Oggi l’attività più redditizia della Gazprom è diventata il petrolio, la materia prima che attualmente assicura più entrate al regime di Vladimir Putin. Nei primi sei mesi del 2023 la Gazprom Neft ha contribuito al 36 per cento del fatturato del gruppo e al 92 per cento degli utili, mentre il suo valore di mercato ha superato quello del ramo dedicato al gas. Tutti questi soldi servono in gran parte a finanziare l’aggressione all’Ucraina e più in generale un’economia nazionale ormai completamente orientata alla guerra. Come ha spiegato l’economista russo Konstantin Sonin in un articolo uscito sul numero 1545 di Internazionale, la crescita del pil russo è dovuta soprattutto alla produzione militare, che però non migliora il tenore di vita delle persone comuni. Anzi, aiuta Mosca a nascondere le difficoltà. Basti pensare al prezzo delle uova, sottolinea il Wall Street Journal. In tutto il paese, da Belgorod alla Siberia, le uova sono sempre più difficili da trovare nei negozi e per averle si formano file che ricordano i tempi dell’Unione Sovietica. A gennaio Putin è stato addirittura costretto a scusarsi, dopo che a dicembre il prezzo era aumentato del 60 per cento rispetto allo stesso mese del 2022. Il governo ha promesso di importare più uova dall’estero e di aprire inchieste sui produttori. Ma probabilmente i suoi sforzi non basteranno. Il settore è in ginocchio a causa delle sanzioni, che impediscono alle aziende di procurarsi in occidente nuovi attrezzi e macchinari e devono affrontare una grave carenza di manodopera causata dal reclutamento militare. La svalutazione del rublo, inoltre, ha reso più costosi i mangimi e i medicinali.
 
Sorpasso amaro sul Giappone
La Germania ha scavalcato il Giappone al terzo posto nella classifica delle maggiori economie mondiali, scrive Le Monde. Secondo i dati preliminari pubblicati il 15 febbraio, il paese asiatico non è più la terza potenza: nel 2023 il valore nominale del pil, infatti, è diminuito in seguito al deprezzamento dello yen, la valuta nazionale. Gonfiato dall’inflazione, invece, il pil tedesco è arrivato a 4.500 miliardi di dollari, contro i 4.200 miliardi del Giappone. Al netto dell’aumento dei prezzi e delle variazioni stagionali, però, in tutto il 2023 l’economia giapponese è cresciuta dell’1,9 per cento, mentre quella tedesca è scesa dello 0,3 per cento. La notizia del sorpasso è stata accolta con una certa amarezza in Germania, dal momento che l’economia nazionale è da tempo alle prese con una profonda crisi strutturale legata a fattori come l’aumento dei costi dell’energia, che ha reso meno competitivo il comparto industriale; l’invecchiamento della popolazione, che ha provocato carenze di manodopera in molti settori; e l’eccesso di burocrazia, che spesso rallenta gli investimenti e le innovazioni, soprattutto nei settori più minacciati dalla concorrenza cinese e da quella statunitense. Il paese, sottolinea Bloomberg, all’improvviso sembra aver scoperto che la sua grande potenza manifatturiera è in declino.

In Giappone, la retrocessione è stata accolta con una certa incredulità, scrive la Süddeutsche Zeitung, visto che “il paese non si sente in crisi”. Dalla fine della pandemia le esportazioni si sono riprese grazie alla debolezza dello yen. Inoltre il 22 febbraio l’indice Nikkei della borsa di Tokyo ha raggiunto il picco più alto dal dicembre del 1989, cioè dal periodo precedente allo scoppio della bolla immobiliare che gettò il Giappone in una crisi profonda. Ma, oltre alla notizia del sorpasso tedesco, nelle stesse ore i giapponesi hanno appreso che negli ultimi tre mesi del 2023 il pil è diminuito, segnando due trimestri consecutivi di calo e quindi l’entrata in recessione del paese. “L’economia nazionale”, osserva il quotidiano tedesco, “ha subito gli effetti della pandemia di covid-19, della guerra in Ucraina e di altre complicazioni geopolitiche. E oggi c’è anche il problema dell’inflazione, dopo decenni di crescita zero e deflazione”. Ma, soprattutto, nel paese continuano ad arretrare la produttività e la competitività, con la complicità del calo demografico: tra il 2019 e il 2023 la popolazione è passata da 126,6 a 125 milioni e la tendenza è destinata ad aumentare. Non a caso il primo ministro Fumio Kishida sta studiando una riforma che agevoli l’arrivo di più lavoratori stranieri. Ma dovrà affrontare la contrarietà di parte dell’opinione pubblica: secondo uno studio dell’Università di Tokyo molti cittadini che temono che un aumento dell’immigrazione metta a rischio la sicurezza pubblica e faccia salire i costi dei servizi sociali.
 
Internazionale
Sul settimanale
Gli investitori cinesi colpiti dal crollo della borsa sono riusciti a sfogare online la loro delusione aggirando la censura. Hanno usato i commenti a un post sulla protezione delle giraffe, racconta il New York Times.

Le parti in conflitto in Sudan non esitano a prendere di mira le attività economiche. Dopo gli attacchi alle sedi delle grandi aziende di telecomunicazioni, il paese è in gran parte isolato, scrive The East African.
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